Archivio di Febbraio 2017

Il fair play negli scacchi.

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Lo spunto per questo post è dato dalla recente lettera aperta che un gruppo di titolati GM italiani hanno indirizzato alla Federazione Scacchistica Italiana, nella quale si chiede apertamente a tutto il movimento scacchistico (giocatori, istruttori e dirigenti) di fare del loro meglio per dimostrare che gli scacchi sono un gioco sano e pulito.

Anche se nelle intenzioni dei firmatari gli obiettivi sono quelli di stigmatizzare il ricorso sleale al cheating e addirittura alle partite combinate per favorire o sfavorire in classifica altri giocatori (spesso in relazione a premi in denaro o qualificazioni a importanti campionati), questa lettera ha anche aperto un’autostrada per iniziare a parlare veramente della correttezza degli scacchisti, dentro e fuori dalla scacchiera.

Personalmente, forse esagerando, ho sempre pensato che la cornice della scacchiera debba comprendere anche i due giocatori, e ho sempre cercato di non fare uno sgarbo al mio avversario di nessun genere: per esempio pestando violentemente l’orologio nelle fasi di zeitnot, reiterando proposte di patta puntualmente rifiutate dall’avversario, bivaccando con snack e beveroni incredibili durante il turno di riflessione dell’avversario, e così via dicendo…
Io, forse non sono un agonista, ma mi dissocio totalmente da quel pensiero attribuito a Lasker che essendo gli scacchi una lotta si deve cercare di ottenere il massimo di disturbo psicologico (per esempio se l’avversario odia il fumo di fumargli contro, se si giocasse all’aperto di metterlo a sfavore di luce ecc.).
Ma mi spingo anche oltre: se una partita è irrimediabilmente persa (una Torre o una Donna in meno senza alcun compenso) stringo la mano all’avversario anziché aspettare una sua cappella che possa ribaltare l’esito; molte volte ho avuto discussioni nel merito con dei bravi giocatori agonisti che invece dicono: “Se l’avversario ha due pezzi di vantaggio è perché io ho sbagliato, quindi perché non dovrebbe sbagliare anche lui?”. Semplicemente perché continuando a giocare glielo sto , poco sportivamente, augurando.

Adesso, io considero fair play un atteggiamento che al termine della partita deve farci sentire più amici di prima anche se io ho meritatamente perso: ogni mezzuccio utilizzato da un agonista per vincere finisce inevitabilmente per minare un’amicizia ma anche solo una relazione di conoscenza. Il gioco degli scacchi non è un’arte marziale in cui devo mettere al tappeto fisicamente l’avversario, e neppure come pensava Fischer “di annientare il suo ego”. Da istruttore io sto molto attento che i miei allievi non adottino mai un comportamento così anti sportivo e mi piacerebbe che questa fosse la prassi per tutti, giocatori e istruttori: la vittoria ad ogni costo è una sconfitta per il bene degli scacchi.